Ciao Maurizio/"Marchesi prima di tutto un amico sincero"

Potremmo ricordare Maurizio Marchesi, spentosi ieri, per il suo curriculum professionale che è stato assai nutrito, dagli esordi a "Brescia Oggi", fino alla direzione de "Il Velino", agenzia su cui pochi avrebbero scommesso e che invece raggiunse un formidabile e meritato successo. Di certo Marchesi comprendeva meglio di tanti, anche alla luce delle novità tecnologiche, le prospettive dell’informazione italiana e sapeva darvi un contributo decisivo.

Però, con tutto il rispetto per il professionista, per noi Marchesi era principalmente un amico fidato, cosa che di questi tempi è sempre più raro trovare. Probabilmente questo rapporto intenso e quasi quotidiano che abbiamo sempre avuto con Maurizio non dipende nemmeno dalla sua militanza nella Federazione giovanile del partito, quanto da un amore profondo per l’idea repubblicana.

Va subito detto che Marchesi non era un nostalgico, in alcun modo. Non l’abbiamo mai sentito rimpiangere i fasti spadoliniani del partito o ricordarci cosa avrebbe detto o fatto Ugo La Malfa in tempi tanto difficili come gli attuali. E questo nonostante l’ammirazione storiografica per due leader di partito che avevano segnato la sua giovinezza e a cui pure era legatissimo nella memoria. Marchesi guardava avanti ed aveva, tutto sommato, una considerazione positiva del fenomeno berlusconiano; era soddisfatto che il partito nel 2001 avesse deciso di sostenerlo. Marchesi considerava Berlusconi come un innovatore vero.

La cifra della sua visone politica in fondo viene bene descritta in un articolo del "Giornale" del 28 maggio 2005, dal titolo emblematico: "L’Italia in crisi tra i vecchi riti democristiani". Temeva che dopo le elezioni potesse nascere "una nuova spiazzante aggregazione attorno alle cosiddette intuizioni di un De Mita rivitalizzato dal rapporto con il bel guaglione già radicale poi ambientalista e infine cattolico e comunque democratico". Ce l’aveva con Rutelli. Considerava ogni tentativo neocentrista come la possibilità di ripercorre "i disastri provocati dal consociativismo nella gestione della finanza pubblica, dall’assistenzialismo alle imprese decotte e dagli sprechi delle amministrazioni dello Stato". La sua ricetta era quella di attenuare la pressione fiscale e introdurre misure di flessibilità nel mercato del lavoro insieme ad interventi per razionalizzare la spesa. La Dc non c’era riuscita, tantomeno il nuovo centrosinistra: guai a dargli una nuova occasione. "Anche per questo non si avverte il bisogno che tornino sulla scena i cattivi maestri e i loro allievi dei bei tempi. Andrebbero isolati, ovunque stanno cercando di riaffiorare, messi nella condizione di non produrre altri danni, non regalando consenso e ruoli impropri", scriveva. Ed erano un po’ di mesi che non lo sentivamo: gli interessava parlare di politica, non della sua malattia.